Il “Baron Litron”
In una ballata l’eroismo e l’umanità del Barone von Leutrum
di Gloria Guerinoni
Un tuffo nella musica e nei testi delle ballate di qualche secolo fa ci apre uno squarcio sull’animo umano che in verità a ben vedere non è mai cambiato. L’ambiente, la cultura, i valori però, a seconda del luogo e del periodo, ponevano l’accento su questo o quell’aspetto della vita sociale e della vita intima e le ballate di cui fortunatamente siamo a conoscenza ce ne illustrano vividamente il sapore e lo spessore. La ballata, al pari dei romanzi cavallereschi, costituiva il rifugio dell’immaginazione popolare, il sogno di una vita più bella, un insieme di ideali a cui ispirarsi. La ballata storica, in particolare, narra le storie e le gesta di quei personaggi che per le loro imprese, il loro coraggio, il valore mostrato in battaglia si guadagnarono, quasi come gli antichi eroi greci, l’immortalità attraverso la poesia.
Così accade anche al Barone Leutrum, personaggio storico amato dal popolo che gli dedicò una ballata particolarmente evocativa. Si tratta appunto del Baron Litron, ballata piemontese del XVIII secolo.
Questa ballata, che è una complainte (lamentazione), inizia con uno scenario tragico: “An drin Turin, a j’è dij cont, a j’è dij cont e de le daime / e de le daime e dij baron, pianzo la mòrt d’ Baron Litron” . “A Torino ci sono conti, dame e baroni che piangono la morte del barone Leutrum”.
Cosa è accaduto? Perché queste lacrime? Sembra l’inizio delle Troiane di Euripide: dopo dieci anni di combattimenti sanguinosi Troia è stata occupata e le donne piangono i loro caduti. Qui ci troviamo invece in Piemonte e per poterci raffigurare gli eventi dobbiamo fare un salto nello spazio e nel tempo.
Si narra che a Torino, su quella che oggi si chiama Via Santa Teresa affacciasse un antico edificio. Era la dimora del barone Karl Sigmund Friedrich Wilhelm von Leutrum, protagonista della ballata. Nonostante fosse tedesco a tutti gli effetti, Leutrum fu uno dei più importanti condottieri del Regno di Sardegna: arrivato a Torino a soli quattordici anni per intraprendere la carriera militare nell’esercito sabaudo, ne aveva poi scalato la gerarchia.
Leutrum è ricordato in particolare per come gestì la città di Cuneo durante l’assedio da parte dell’armata franco-spagnola nel 1744, organizzando perfettamente la resistenza: la città venne divisa in undici quartieri, la chiesa di San Francesco fu trasformata in ospedale, ai cuneesi fu ordinato di consolidare le loro case con opere difensive, preparare riserve di acqua e viveri, nascondere i materiali infiammabili. Il barone dimostrò anche notevoli abilità di stratega: diede infatti l’ordine di scatenare la guerriglia in alta valle, alle spalle dei francesi, in modo da disturbarne i rifornimenti. Inoltre, buon conoscitore dei suoi soldati e consapevole di avere potenziali disertori nei battaglioni, Leutrum mandò quei reparti in pattuglia fuori Cuneo per liberarsene.
Il 12 settembre la trincea d’assedio venne aperta e il 22 ottobre l’assedio era già terminato: era costato agli attaccanti 6500 tra morti e feriti, ma in Cuneo se ne contarono solo 460. Leutrum fu nominato Generale di Fanteria, raggiungendo ufficialmente il vertice dell’esercito del Regno, si guadagnò l’affetto di tutti i cuneesi e al termine della Guerra di Successione Austriaca venne confermato Governatore di Cuneo.
Le sue gesta del barone, il suo coraggio e le strategie militari che salvarono la vita di molti cittadini gli guadagnarono la stima di tutta la popolazione, tanto che la sua storia divenne appunto una rapsodia popolare, una narrazione epica che superò la prova del tempo arrivando fino ai nostri giorni.
Non stupisce dunque apprendere che, quando il più grande condottiero dell’esercito sabaudo si ammalò, il re Carlo Emanuele III si recò personalmente a trovarlo con gran corteo di carrozze e cocchieri: “Signor lo re, quand l’a savu’ / ch’ Baron Litron l’era malavi / Comanda caròsse e carossé / Baron litron l’è andà trové”.
La tristezza del momento era intollerabile: il barone Leutrum, più volte ferito in battaglia ma ripresosi sempre rapidamente, questa volta era gravemente malato. Il re per rallegrarlo, e forse anche per rallegrare l’intero popolo trafitto dal dolore, arrivato a Madonna dell’Olmo prima di entrare in Cuneo, fa suonare le trombe e sparare i cannoni.
“Signor lo re, quand l’è stait là: Baron Litron, cum’a la va-la? / Sta maladia j’ò da murì, j’ò pi speransa de guarì”. Leutrum risponde francamente al re, che lo interroga sulla sua salute: “Di questa malattia devo morire, non ho più speranza di guarire”. Parole semplici, eppure proprio perché proferite da una persona cara, difficili da accettare.
Fino all’ultimo istante vorremmo essere smentiti: “Signor lo re s’a j a bin dit: Baron litron fate corage / Mi te daru’ dl’ or e dl’ arzan, mi te faru’ prim general”. Persino il re non vuole arrendersi, non vuole perdere colui che ha salvato la vita di tanti suoi uomini: “Barone Leutrum, fatti coraggio, ti darò oro e argento, ti farò primo generale”.
“Os’a j’è pa né or né arzan, che mai la mòrt l’abia pèr scusa / J’è pa né re né general, che mai la mòrt j’abia risguard”. “Oh, non c’è né oro né argento che mai la morte abbia per scusa, non c’è né re né generale a cui la morte porti rispetto”. Vi è una saggezza antica nelle ultime parole del barone, che pronunciano una verità universale: nulla può farci scampare la morte.
“O dime ‘n po, Baron Litron, o vòs-to nèn che ti batezo? / Faria vnì ‘l vèscu ‘d Turin, mi serviria pèr to Parin”. “Dimmi, barone Leutrum, non vuoi essere battezzato? Farei venire il vescovo di Torino, ed io ti farei da padrino”. Così domanda infine il re al barone Leutrum che era infatti protestante.
“Baron Litron s’a j’a bin dit / Sia ringrassià vostra corun–a /
Mi pòss pa pì rivé a tan, o bon barbèt, o bon cristian”. Il barone è ricordato per la coerenza con la quale rimase votato alla propria fede religiosa: “Sia ringraziata la vostra maestà, ma non posso riuscire a tanto: o buon barbetto o buon cristiano” (barbèt è il termine piemontese per indicare i valdesi: il barone, luterano, si considerava uno di loro).
“O di me ‘n po’ s’ t’ai da murì, o dova vòstu ch a t’ sotero? / Ti farò fè na cassia d’or, ti farò fè d’ un grand onor”. “Dimmi, se morirai, dove vuoi essere sotterrato? Ti farò fare una cassa d’oro, ti farò dare grandi onori”. Carlo Emanuele III continua a prospettargli un funerale con i massimi onori religiosi e militari e una tomba monumentale, qualora il barone acconsenta a convertirsi al cattolicesimo (si narra anche che il re gli offrì persino il collare dell’Annunziata, il più ambito titolo cavalleresco negli stati Sabaudi).
“Mi lasserò per testamènt, ch’a mi sotèro an val d’Luserna / an val d’Luserna a m’ sotraran, dova el mè còr s’arposa tan”. Leutrum dispone invece di essere sepolto presso il Ciàbas, un minuto tempio valdese di montagna vicino ad Angrogna, dove le sue spoglie si trovano tuttora e dove fu accompagnato dal Reggimento Leutrum, così chiamato in suo onore.
Il 16 maggio 1755 Carlo Sigismondo morì a Cuneo. “Baron Litron a l’é spirà, pioré baron, pioré voi daime / Soné le ciòche, sparé i canon, ch’a l’è spirà Baron Litron!”. “Il barone Leutrum è spirato, piangete baroni, piangete dame, suonate le campane, sparate i cannoni perché è spirato il barone Leutrum!”. La tradizione popolare ha amato la coerenza del barone Leutrum, la fierezza d’animo, il coraggio di fronte alla morte e la costanza nel rimanere fedele alla propria religione. La sua storia ha tanto allietato il popolo da indurlo a un ultimo commovente saluto. Al suono delle campane e allo sparo dei cannoni il popolo canta dolcemente questa ballata.
Questa storia, che è molto sentita, rientra nel grande capitolo delle ballate piemontesi. La ballata piemontese è una canzone epico-lirica, legata a gesta degne di memoria e venerazione. I personaggi sono più simili a dei tipi umani che a delle persone in carne ed ossa. A differenza, ad esempio, della canzone meridionale o napoletana, che viene paragonata dagli storici della musica a un piccolo romanzo, in quanto raffigura una realtà viva e non ufficiale, legata a sentimenti strettamente individuali e personali, storie di amori e di tradimenti (come la canzone Fenesta vascia, “finestra bassa”, canto popolare napoletano del Cinquecento che narra di un amore senza speranza di un giovane per una ragazza che abita dietro la finestra).
Secondo Costantino Nigra, che nel 1888 pubblicò i Canti popolari del Piemonte, la prima ballata piemontese fu composta prima dell’anno Mille e dedicata alla regina dei Longobardi Rosmunda. È una tipica murder ballad che narra di una giovane moglie istigata dall’amante ad avvelenare il marito, e di un neonato che miracolosamente comincia a parlare per rivelare l’intrigo. Anche Rosmunda, secondo la leggenda, organizzò la congiura che uccise il marito, il re dei Longobardi Alboino, e successivamente tentò di avvelenare anche il suo nuovo amante Elmichi, con cui era fuggita, divenendo però vittima del suo stesso complotto.
Il Piemonte ha avuto fin dall’Ottocento un posto di primo piano nella ricezione, creazione e trasmissione della ballata. Tra le ballate storiche più note c’è quella su Garibaldi, cantata su un ritmo di marcia dei bersaglieri; quella su Louis Mandrin, celebre brigante e contrabbandiere francese, amatissimo dal popolo e ucciso per volontà del re col supplizio della ruota; Il testamento del marchese di Saluzzo, capitano generale delle armi francesi nel reame di Napoli, mortalmente ferito durante la difesa della fortezza di Aversa assediata dalle truppe borboniche; La Canzone dell’Assietta, dedicata appunto ai “bogianen” difensori dell’Assietta.
Quella sul barone von Leutrum ci è particolarmente cara perché, oltre a mettere in risalto l’aspetto eroico del protagonista, ne esalta un’umanità che contempla anima e fede: quanti cittadini salvati grazie a lui e quanta sacralità in nome della sua fede protestante in luogo di un anelito effimero rivolto a beni terreni, che non avrebbe fatto del baron Litron il personaggio di cui l’orgoglio piemontese va fiero ancora oggi.
Per ascoltare la ballata: https://www.youtube.com/watch?v=ZKsPrK_TDMY
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