Baratuciat
il bianco del mistero rinasce in Val di Susa
di Giovanni Andriolo
Un’uva misteriosa che non ha genitori o parenti tra i vitigni del Nord Italia, del cui arrivo in Piemonte non è rimasta traccia scritta, con un nome che però non passa inosservato: è il Baratuciat, che salvata dall’estinzione negli anni ’90 grazie alla tenacia di un viticoltore di Rivera di Almese dà oggi l’unico vino bianco inserito nella Denominazione di Origine Controllata Valsusa.
Il primo riferimento scritto al Baratuciat finora rintracciato si trova nel Bollettino Ampelografico del 1877 del conte Giuseppe di Rovasenda che raccoglie le schede ampelografiche della sua collezione di oltre 3.500 vitigni. Questo documento afferma che il Baratuciat era presente allora nella zona di Villarbasse ed era utilizzato per produrre uva da tavola. Di lì a pochi decenni anche la Valle di Susa fu colpita dalla fillossera, il parassita delle viti proveniente dal continente americano che distrusse tra la seconda metà dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’85% del vigneto europeo. Un disastro epocale, arginato soltanto negli anni ’30 del secolo scorso e destinato a diventare uno spartiacque nella storia della viticoltura.
Tra le poche viti sopravvissute, quella di uva Baratuciat che si trovava davanti alla casa di Giorgio Falca a Rivera di Almese sarebbe diventata fondamentale per evitare l’estinzione del misterioso vitigno. Piantata dal nonno di Giorgio agli inizi del Novecento, la vite era isolata dal vigneto adiacente alla casa poiché aveva la funzione di ombreggiare il cortile. Fu probabilmente questo suo isolamento il motivo per cui la pianta non fu attaccata dalla fillossera e sopravvisse fino al 1991, quando Giorgio Falca decide di abbattere la pianta. A quel tempo il Baratuciat è conosciuto in bassa Val di Susa per l’uva da tavola o usato in uvaggio con altri vitigni rossi, ma le piante sono pochissime. La moglie di Giorgio da tempo si lamenta, è stufa di pulire il cortile dalle foglie e dalla poca uva che quella vecchia vite perde.
Giorgio la elimina, peritandosi però di tagliare i rami migliori, che con l’aiuto di un vivaista diventano barbatelle e sono impiantate in vigna. Da qui iniziano le prime produzioni artigianali di Baratuciat, vinificato da Giorgio con strumentazione inadeguata e con il metodo di vinificazione in rosso.
Nei primi anni Duemila Giorgio decide di impiantare una vigna di circa 400 barbatelle e informa dell’esistenza di questo vitigno che si credeva scomparso i ricercatori dell’allora Facoltà di Agraria e del Cnr, impegnati ad analizzare i vitigni autoctoni della Valle fin da prima della creazione della Doc Valsusa nel 1997. Per tre anni i ricercatori studiano il vitigno sia in vigna sia in cantina.
Le prime bottiglie di Baratuciat sono vinificate presso la cantina sperimentale della stessa Facoltà a Chieri e sono presentate all’inizio del 2008: è proprio assaggiando quel Baratuciat che Giuliano Bosio – compaesano di Falca e attuale presidente dell’Associazione Baratuciat e vitigni minori – decide di impiantarle in due vigneti ad Almese.
“D’altra parte, ricorda Bosio, il nonno e il padre di Falca hanno sempre detto che da quella vite as farìa bon vin. Avevo assaggiato con un sorriso le bottiglie di Baratuciat artigianale di Giorgio negli anni ’90, ma quando assaggiai la prima bottiglia vinificata a Chieri fu come una folgorazione sulla via di Damasco”.
Così la collina di Almese, nata in antichità dalla spinta della morena del ghiacciaio che ha modellato la Valle di Susa, diventa il luogo della maggior diffusione di questo vitigno e del vino bianco che porta il suo stesso nome.
Un nome curioso: i ricercatori lo riconducono all’espressione in dialetto locale berla du chat che indica gli escrementi del gatto, associato forse alla forma particolare dell’acino, molto allungato. I viticoltori della Bassa Valle, a seconda delle zone dove storicamente era presente, utilizzano anche altre varianti, come Bertacuciàt o Berlu ‘d ciàt.
Un vitigno misterioso che, assicurano i valsusini, è sempre esistito, ma di cui nessuno conosce la storia, e che le recenti analisi con marcatori molecolari del dna hanno confermato non aver alcuna corrispondenza genetica con il dna di altri vitigni finora presenti nelle banche dati europee.
Secondo alcuni potrebbe essere arrivato in Valle con i monaci dell’Abbazia di San Giusto di Susa, che per secoli e fino all’inizio dell’Ottocento hanno vissuto nel ricetto di San Mauro nella frazione di Rivera, un castello che si trova a poche centinaia di metri dalla vigna di Giorgio Falca. Secondo altri invece sarebbe il risultato di un cambiamento genetico e varietale di qualche vitigno sopravvissuto alla fillossera.
Qualunque sia la sua origine, il Baratuciat è un vino che non manca di stupire chi lo assaggia: il profumo è un’esplosione di mela verde, di fiori bianchi come sambuco, eucalipto, mentre il sapore è allo stesso tempo aromatico, sapido e acidulo. Il giornalista Paolo Massobrio, dopo aver assaggiato una delle prime bottiglie, su La Stampa del 31 gennaio 2008 scriverà: “Da assaggiatore posso dire che sono rimasto spiazzato. […] c’è da scommetterci che presto diventerà famoso”.
È un vino versatile che da giovane si fa bere da solo come aperitivo o con antipasti leggeri, dopo qualche anno di evoluzione può accompagnare piatti di pesce, carni bianche e, data la sua morbidezza e intensità in bocca, è ideale per bilanciare i sapori estremi delle spezie della cucina etnica. “Ha una caratteristica importante”, racconta Bosio. “Il suo sapore tende a non mischiarsi con il sapore del cibo con cui si accompagna, mantiene la sua identità senza alterare quella del cibo.”
Nel 2008 il Baratuciat è iscritto nel Catalogo Nazionale delle varietà di viti come primo autoctono bianco della Valle di Susa, mentre nel 2012 compare anche nell’enciclopedia ampelografica internazionale Wine Grapes.
Tuttavia la sua consacrazione arriva più recentemente: nel 2018 e nel 2019 il Baratuciat Gesia Veja di Giuliano Bosio riceve una Medaglia d’argento al Decanter World Wine Awards di Londra (che vede la partecipazione di diciassettemila vini da tutto il mondo). Lo stesso vino ottiene poi le quattro stelle tra i “vini da non perdere” nelle edizioni 2019 e 2020 della guida Vinibuoni d’Italia del Touring Club.
A febbraio 2019 nasce l’Associazione Baratuciat e vitigni minori, composta da una decina di produttori locali, di cui proprio Giuliano Bosio diventa presidente. Ma è ad agosto, con il suo inserimento quale primo vino bianco nella Doc Valsusa, che il Baratuciat trova un ulteriore importante riconoscimento.
Un riconoscimento che aveva peraltro già riscontrato nei fatti, con la sua diffusione tra i viticoltori non soltanto ad Almese e dintorni, dove in seguito alla prematura morte di Giorgio Falca nel 2012 i vigneti sono seguiti dall’amico Giuliano Bosio che continua a produrre insieme ad altre aziende agricole locali; lo troviamo anche nell’Alta Val di Susa – a Chiomonte, Villarbasse, Buttigliera Alta, Rubiana, Condove, Caprie, Avigliana – coltivato e vinificato in purezza. Lo troviamo poi in Monferrato, con alcuni viticoltori che stanno contribuendo ulteriormente a salvarlo dall’oblio.
Oggi gli ettari coltivati sono circa 8, di cui 3 soltanto ad Almese e bassa Valle di Susa. E proprio su questo punto si concentrano gli sforzi dell’Associazione Baratuciat e vitigni minori, che attraverso attività di valorizzazione del vino punta ad aumentare gli ettari vitati in bassa Valle e sulla collina morenica.
L’inserimento del Baratuciat nella Doc Valsusa ha imposto regole severe: il Disciplinare infatti richiede che le uve siano non soltanto prodotte, ma anche vinificate all’interno della zona di delimitazione della Doc. In tali circostanze diventa fondamentale promuovere questo vino per attrarre imprenditori e viticoltori che vogliano scommettere sul Baratuciat e altri vitigni minori e che siano disposti a investire in modo da poter far fronte a una domanda di mercato crescente.
Nel frattempo la sperimentazione non si ferma: le caratteristiche di questo vino, i profumi di fiori e frutta, la sua acidità intrigante e il successo sul mercato hanno spinto alcuni produttori a spumantizzarlo e a sperimentare le tecniche migliori per produrne un passito.
Si ringrazia Giuliano Bosio per la concessione dell’uso delle immagini, che sono tratte dal sito www.baratuciat.com
A luglio 2020 sono state corrette due lievi imprecisioni presenti nella versione originale dell’articolo. Si ringrazia il sig. Stefano Turbil per la segnalazione